Questa costruzione sorge attualmente in via Giolitti, a poca distanza dalla stazione ferroviaria Roma Termini e per la sua mole non può non essere notata.
Quello che oggi appare come un edificio a due piani spoglio e privo di significato anticamente era parte di un grande complesso realizzato in parte in opera vittata e in parte in opera laterizia.
È caratterizzato nel piano inferiore da una vasta sala a pianta decagona, con 9 nicchie semicircolari ampie su ogni lato, che avevano la funzione di dilatare lo spazio sia interno che esterno, ed una decima, collegata ad un atrio, che fungeva da ingresso. La maestosa copertura a cupola, ancora oggi imponete, copriva l’intero diametro dell’aula pari a 25 m e doveva raggiungere un’altezza pari a 32 m (oggi ne restano 24 m) e venne realizzata con la stessa tecnica e tipologia di materiali precedentemente usati per la realizzazione di quella del Pantheon.
Questa cupola è un eccezionale esempio dell’architettura nella Roma tardo antica e per dimensioni può essere considerata la terza nell’Urbe, dopo quella del Pantheon e delle Terme di Caracalla. L’edificio aveva un piano superiore caratterizzato da dieci grandi finestre: la loro ampiezza e altezza rese necessaria, fin dall’antichità, la realizzazione di pilastri di sostegno lungo la muratura esterna, uno per ciascuna apertura.
L’aula decagonale era il fulcro dell’edificio, che presentava un ingresso lungo il lato Nord con un atrio detto a “forcipe”; intorno al perimetro esterno della sala erano presenti altri ambienti semicircolari che vi si addossavano, e dei quali resta ben poco, e che erano collegati medianti le 9 nicchie. Anche questi ambienti avevano una funzione statica di sostegno e contenimento delle spinte delle pareti dell’aula.
L’intero edificio doveva essere caratterizzato da una straordinaria decorazione della quale restano tracce di mosaico in pasta vitrea sulla cupola, poi ad un certo momento coperto da intonaco; lungo le pareti sono visibili i resti della preparazione a malta e frammenti di tegole che serviva per l’allettamento delle crustae marmoree. Sui pavimenti erano mosaici e opus sectile disposti in un’alternanza di colori. Dibattuta resta ancora l’ipotesi della presenza di un oculus al centro della cupola.
Ricostruzione dell'alzato, pianta e sezione
Da alcuni scavi effettuati negli ultimi anni è emerso un sistema di ipocausti sotto alcuni ambienti della sala, il che ha portato a ritenere che una parte dell’edificio potesse essere stata adibita a triclinio.
Il cosiddetto tempio viene datato attorno al IV secolo d.C. e gran parte degli studiosi ritiene di potervi identificare il ninfeo degli Horti Liciniani, realizzato all’interno di una immensa villa che sorgeva in questa parte delle Esquiliae, tra via S. Bibiana e Porta Maggiore, voluta dall’imperatore Licinio Gallieno (260 – 268). Pare che l’edificio fosse talmente vasto da poter ospitare al suo interno sia l’intera cohorte militare che l’amministrazione palatina.
Date le dimensioni e le ricche decorazioni si ritiene che la committenza possa essere stata effettivamente imperiale con rifacimenti ed ampliamenti, in base ai bolli laterizi, ad opera di Massenzio o Costantino.
L’edificio venne utilizzato almeno fino al V – VI secolo, quando l’Esquilino venne abbandonato e la popolazione si trasferì nelle zone vicine al Tevere: la grande aula subì la medesima sorte.
L’identificazione è rimasta incerta per molto tempo ma il Nibby (Itinerario di Roma e delle sue vicinanze, 1830, pp. 198 – 199) riporta quali siano state le ipotesi a partire dal XVI secolo e perché non le ritiene valide:
“Il nome di Galluzze, che portava questa contrada, fece credere ad alcuni scrittori del secolo XVI che questa rovina fosse la basilica di Cajo e Lucio eretta da Augusto: altri per la stessa frivolissima ragione supposero che fosse il tempio di Ercole Callaico fabbricato da Bruto: ed altri finalmente dopo la scoperta della bella statua di Minerva col serpe ai piedi (oggi esistente nel nuovo braccio del Museo Vaticano) la credettero la Minerva Medica citata da’ Regionarj, e lo giudicarono un tempio. Ma la sua forma si oppone a questo, la quale meglio direbbesi convenire ad una sala, né si può credere di molto lontana per la sua costruzione all’epoca di Diocleziano: e forse fu una sala eretta negli Orti Liciniani, i quali erano certamente in questa parte. Né si può concedere che il serpe ai piedi di Minerva alcuna cosa abbia a che fare colla medicina, poiché era questo rettile sacro a quella dea per eccellenza come l’aquila a Giove, il grifo ad Apollo ec. (…)
Inoltre insieme con Minerva altre statue sono state trovate in questa stessa rovina le quali certamente, meno Esculapio, null’hanno di commune colla medicina. Da tutto ciò è da conchiudersi che la Minerva come le altre statue rinvenute in questi avanzi era una statua di decorazione della sala, appartenente ai giardini Liciniani.”
Minerva Giustiniani
Stando quindi alle parole del Nibby nel XVI secolo si riteneva che fosse parte di un edificio termale dedicato a Gaio e Lucio Cesari, nipoti di Augusto e prescelti come eredi dell’Impero ma morti in giovane età, e per questo era definito Thermae Gai et Luci oppure che fosse la costruzione che fece realizzare Bruto per Ercole Callaico da cui prese il nome di Thermae Gallicae, termine che nel linguaggio popolare divenne Gallucce e che si ritrova nelle carte storiche dal Rinascimento.
La statua alla quale il Nibby si riferisce venne trovata nei pressi della struttura durante degli scavi condotti nel XVII secolo ed è databile ad epoca antonina, in marmo pario ad imitazione di un originale greco di V – IV secolo a.C. forse opera di Fidia; raffigura la dea Minerva stante con una lancia nella mano destra ed un serpente accanto al suo piede destro, conservata ai Musei Vaticani e nota come Minerva Giustiniani in quanto facente parte della omonima collezione. Tale statua era forse originariamente nei pressi del tempio di Minerva presente in Campo Marzio e solo successivamente venne portata sull’Esquilino per adornare questo complesso. La sua presenza e l’attributo del serpente, sacro ad Esculapio dio della medicina, fece erroneamente identificare la dea nella sua accezione di guaritrice e diede il nome attuale al complesso.
Il nome di “Tempio di Minerva Medica” è però precedente in quanto già Pirro Ligorio, quando ne disegnò la pianta nel XVI secolo, lo chiamava già così. Probabilmente l’errore iniziale, precedente quindi al rinvenimento della statua, è da legare al fatto, sempre secondo il Nibby, che tale edificio sia stato identificato con un tempio di epoca romana che esisteva presso la via Labicana dedicato a Minerva e riportato nei Cataloghi Regionari.
La cupola, sicuramente la parte più significativa di tutta la struttura, era nel Rinascimento ancora in gran parte in piedi, come dimostra un’acquavite del 1780, e fu oggetto di attenti studi da parte di famosi architetti quali Giuliano da Sangallo, Baldassarre Peruzzi e Palladio; secondo alcune fonti tale cupola addirittura ispirò al Brunelleschi quella di Santa Maria in Fiore a Firenze.
Riportando sempre le parole del Nibby (ibidem) agli inizi del 1800 era invece in avanzata rovina e si tentarono lavori per ricostruirla:
Magistrato che lancia la mappa
“Lo stato imminente di totale rovina in che si trovava avea mosso il Governo ad ordinare che la volta fosse ricostrutta, e già si preparava il lavoro, quando nel 1828 crollò improvvisamente, schiacciando tutta l’armatura di legno costrutta per sostenerla.”
Nel 1828 quindi, a causa della scarsa manutenzione e probabilmente anche di interventi errati nella sistemazione dei ponteggi, buona parte crollò lasciandola come la vediamo ancora oggi.
Tra il 1875 ed il 1878 furono eseguiti degli scavi a seguito dei quali vennero rinvenute due statue di magistrati romani nell’atto di lanciare la mappa, ossia di dare inizio ai giochi circensi, conservate ai Capitolini. Anche le corse dei carri erano legate al culto di Minerva, il che avvalorerebbe l’identificazione con un edificio legato alla dea.
Negli anni Quaranta del Novecento si fecero degli interventi di restauro.
Tempio di Minerva Medica - Ducros, Volpato 1780
Negli ultimi anni l’edificio è stato nuovamente oggetto di studio, scavi e restauri volti a rendere stabile l’intera struttura e a poter garantire, forse tra non molto tempo, la riapertura al pubblico.
Manuela Ferrari