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Sabato, 27 Luglio 2024

 

A.D. VI KAL. AUG.
ante diem sextum Kalendas Augustas

Ludi Victoria Caesaris

 

A.U.C. MMDCCLXXVII
(anno 2777 Ab Urbe Condita)

Massenzio

 

 

Ritratto di Massenzio, Museo del Luovre, Parigi.

 

Marco Aurelio Valerio Massenzio, figlio dell’imperatore Massimiano e di Eutropia, nacque nel 278 o 279 d.C. Suo padre venne chiamato da Diocleziano a guidare insieme l’Impero con la nuova istituzione, dal 293, della Tetrarchia. Diocleziano scelse per sè l’Oriente e lasciò a Massimiano l’Occidente: entrambi ebbero il titolo di Augusto. Tutti e due inoltre scelsero i rispettivi Cesari che avrebbero un giorno preso il loro posto: Galerio e Costanzo Cloro. Per saldare ulteriormente l’unione politica che si era creata tra i quattro esponenti del massimo potere, Massimiano decise di far unire in matrimonio il suo giovane figlio Massenzio con la figlia di Galerio, Valeria Massimilla.
Nel 305 Massimiano e Diocleziano abdicarono in favore dei due Cesari, ma l’anno seguente, Costanzo Cloro morì, e, dopo l'acclamazione di Costantino a Eburacum (odierna York), anche Massenzio, approfittando del malcontento della popolazione di Roma e delle truppe pretoriane, si fece acclamare Augusto a sua volta, il 28 ottobre del 306, forse d'accordo con lo stesso Costantino. Così Massenzio ottenne il controllo dei territori che erano appartenuti al padre Massimiano: l’Italia e l’Africa. A supportare la sua aspirazione imperiale aveva il popolo di Roma, al quale garantiva il rifornimento di grano e olio dall’Africa, ed anche la Guardia Pretoriana, quest’ultima, soprattutto, perché stava vedendo il proprio potere e prestigio diminuire a causa di una politica di favoritismi nei confronti delle nuove città dell’Impero come Treviri, Milano, Nicomedia, Antiochia ed Alessandria. Così Massenzio divenne il difensore e protettore di Roma, del suo popolo e delle sue tradizioni, un piano politico che prevedeva inoltre di riportare la capitale agli antichi splendori. Così sulle monete ripropose le immagini legate alla mitica fondazione della città, in particolare la lupa con i gemelli Romolo e Remo, e Marte, nelle vesti sia di dio guerriero che di padre dei mitici fondatori. A questo affiancò un programma edilizio che fu solo parzialmente posto in opera: di quella che doveva essere una vera e propria ristrutturazione monumentale della città rimane la grandiosa Basilica di Massenzio (poi detta di Costantino o Nova) lungo la Via Sacra, nell’area del Foro; la ricostruzione del tempio di Venere e Roma; l’ampliamento della Sacra Via con la costruzione del tempio – heroon dedicato al figlio Romolo da un lato e della Porticus Margaritaria sull’altro. Si occupò inoltre del restauro e dell’innalzamento delle mura costruite da Aureliano, e restaurò la via Appia fino a Brindisi.
In questo vasto programma edilizio rientra anche la costruzione di una grandiosa villa suburbana nei suoi possedimenti lungo la via Appia, dove costruì anche un circo ed il mausoleo per suo figlio Romolo.

 

Resti del circo fatto costruire all’interno della villa eretta da Massenzio sulla via Appia.

 

Per cercare di mantenere il potere in un primo tempo Massenzio si alleò con Costantino, sposando anche la sorella di lui Fausta nel 307, e richiamò il padre Massimiano per farsi sotenere politicamente. Inoltre sostenne e vinse lo scontro militare contro Galerio che scese in Italia per fermarlo. Ma da questo momento in poi cominciarono i problemi, prima con la rivolta in Africa ad opera di Lucio Domizio Alessandro, poi con la rottura dei rapporti con il padre e con Costantino, e la morte del suo giovane figlio Valerio Romolo nel 309. Persa la possibilità di essere riconosciuto ufficialmente dal potere tetrarchico Massenzio fu costretto allo scontro finale con Costantino, ormai legalmente riconosciuto alla successione imperiale nella parte occidentale dell’Impero, e grazie anche alla sua nuova alleanza con Licinio che lottava per il potere nella parte orientale dell’Impero. Così per risolvere la questione Costantino, a capo di un esercito non molto numeroso, invase l’Italia e riuscì, nella battaglia di Verona, a vincere e a conquistare il Nord della penisola, aprendosi le porte verso Roma. Massenzio, che disponeva di forze militari superiori, restò invece ad aspettare a Roma l’arrivo del nemico. Si giunse così alla battaglia presso il Ponte Milvio, dove le forze di Costantino ebbero la meglio. Massenzio, in ritirata con le sue truppe, morì annegato nel Tevere mentre cercava di passare il fiume per rientrare tra le mura di Roma.  Era il 28 Ottobre del 312 d.C.
Massenzio non fu mai ufficialmente condannato alla damnatio memoriae, ma la sua effigie non compare nei monumenti ufficiali. Dagli autori antichi, in particolare Zosimo (Hist., 11, 12, 15), Aurelio Vittore (Lib. De Caes., 40) e Ammiano Marcellino (XXV; 10, 2), si scopre che numerose sue effigi ed iscrizioni dedicatorie vennero realizzate ed inviate anche nella parte orientale dell’Impero, compresa la stessa Costantinopoli. Rimane ancora incerta quale fosse la reale fisionomia dell’imperatore e questo non ha permesso di attribuire con certezza alcuni ritratti a Massenzio. Una delle principali cause di questa incertezza si deve in gran parte alla storiografia filocostaniana, che fece di tutto per mettere in cattiva luce l’antagonista di quello che sarà considerato il giusto imperatore cristiano. Eusebio di Cesarea infatti più volte descrisse Massenzio come crudele, dissoluto, mago (nel senso più spregiativo del termine) nonché persecutore dei Cristiani. Quest’ultima notizia in particolare seppure infondata (in realtà Massenzio non fece mai persecuzioni, ma dichiarò libero il culto cristiano e restituì loro quanto era stato indebitamente sottratto), contribuì alla cattiva fama del personaggio. Un’idea del suo ritratto comunque è possibile averla dalle monete sulle quali compare il volto di Massenzio e da alcune statue o ritratti che gli vengono attribuiti in base alla somiglianza con questi ritratti monetali.

 

Follis di Massenzio (306-312 d.C.)

 

Gabriele Romano

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 Nam et secundas res splendidiores facit amicitia et adversas
 partiens communicansque leviores
(Poiché l'amicizia fa più splendida la buona fortuna e più lieve l'avversa,
condividendola e facendola così anche propria.)
Cicerone, De amicitia, VI, 22