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Lunedì, 2 Dicembre 2024

 

A.D. IV NON. DEC.
ante diem quartum Nonas Decembres

 

A.U.C. MMDCCLXXVII
(anno 2777 Ab Urbe Condita)

Il culto della Bona Dea

Tra i numerosi culti celebrati a Roma grande importanza rivestiva quello dedicato alla Bona Dea, le  cui origini si perdono nel mito.
L’identità di questa dea non è chiara in quanto neppure le fonti antiche ne danno una caratterizzazione fisica o morale. Secondo il mito era moglie (secondo alcune versioni invece figlia) del dio Fauno, abile nelle arti domestiche e pudica al punto di restare sempre chiusa nella sua camera e di non ammettere alla sua presenza altro uomo all’infuori del marito. Un giorno però la giovane trovò una brocca di vino e non resistendo al fascino, ne bevve e si ubriacò: il marito, trovatala ebbra, la punì colpendola ripetutamente con verghe di mirto al punto che la uccise (si potrebbero dunque legare alla sua morte l’esclusione del mirto e l’atteggiamento verso il vino durante le sue feste). La sua storia, insieme a quella di Fauno, va quindi collocata in quella antica del Latium Vetus, dalla quale deriveranno poi la loro genealogia gli appartenenti alla famiglia Giulio – Claudia. Alcuni tendono ad identificarla, almeno per la fase più arcaica, con Fauna, la divinità dei boschi e della pastorizia, moglie appunto di Fauno, considerata anche una dea in grado di predire l’avvenire, a favore del popolo romano e, quindi, per la salute di Roma stessa. Probabilmente poi con il tempo al suo culto si legò quello di una divinità greca introdotta a Roma attraverso la Magna Grecia e che ben presto ne prese il posto. Questa dea greca era Damia, molto amata in Argolide, ad Egina, Sparta, Tera e a Taranto. Il suo culto era legato a dei riti misterici ai quali potevano accedere soltanto le donne.
Probabilmente fu proprio attraverso Taranto, conquistata dai Romani nel 272 a.C., che la dea venne portata a Roma, dove la tipologia del culto la fece ben presto assimilare a Fauna.
Fin dalla sua creazione il rituale a lei legato fu riservato soltanto alle donne libere e univirae, così come era stata lei in vita, e gli uomini erano assolutamente esclusi, addirittura anche gli animali di sesso maschile non potevano essere introdotti durante le celebrazioni. Sempre secondo il mito Ercole, offeso dall’esclusione da tali riti, per vendicarsi aveva istituito delle celebrazioni presso il suo altare, nella zona del Circo Massimo, alle quali le donne non potevano prendere parte.
Il rito dedicato alla Bona Dea si celebrava agli inizi di dicembre, anche se non vi era mai una data fissa prestabilita, e si svolgeva di notte, di solito nella casa di un magistrato cum imperio, dove le matrone si riunivano per celebrare i riti in favore del popolo per conto dello Stato (Cicerone,De haruspicum responso, 37); a loro si univano anche le Vestali e le matres familias.
Il rito era presieduto dalla moglie del magistrato presso la cui casa veniva svolto e assumeva il ruolo di sacerdotessa con il nome di damiatrix, derivato da quello della dea stessa (Paolo Diacono, Excerpta ex libris Pompeii Festi de significatione verborum, p. 68). Quale che fosse il reale nome della dea, generalmente indicata come Bona, non si sa in quanto solo le iniziate erano ammesse a conoscerlo e non dovevano rivelarlo per nessun motivo.
Quello che si svolgeva all’interno della casa durante questi riti restava assolutamente segreto e per tale ragione il culto venne definito misterico. Come ogni celebrazione anche in questo caso veniva sacrificato un animale, nello specifico una scrofa. Tutta la sala nella quale veniva svolta la cerimonia era ornata con tralci di vite. Inoltre vi erano musiche e danze ed era utilizzato anche il vino, ma, secondo le usanze del rito, non veniva chiamato con il suo nome, come ricorda Macrobio (Saturnalia,I, 12, 25) e la spiegazione la si trova nella versione del mito che vuole che la sua morte sia stata in parte causata dall’aver bevuto vino. Il tempio a lei dedicato si trovava alle pendici dell’Aventino, a sud dell’estremità orientale del Circo Massimo, accanto ad un bosco sacro dove ogni anno donne e ragazze celebravano i suoi misteri. Questo venne restaurato da Livia (tale evento veniva ricordato ogni anno nel mese di Maggio), poi ancora da Adriano, e sembra fosse integro ed agibile ancora nel IV sec. d.C,. ma non ne rimane nulla. Anche il tempio era interdetto agli uomini, che non potevano sostare neanche sulla sua soglia. 
Ben presto il nuovo aspetto di divinità salutifera, derivato dalla greca Damia, prese il sopravvento su quello di dea dei boschi, e in tale veste si diffuse in tutta la penisola e in alcune zone dell’Impero (iscrizioni sono state rinvenute ad Aquileia, nella Gallia Narbonense, in Pannonia e nelle province africane). Sembra vi fosse una farmacia annessa al suo tempio, gestito dalle sue sacerdotesse (riunite in un collegium), e che spesso le donne vi si recassero per avere aiuti.

Sono state rinvenute numerose statuette e rilievi a lei dedicati da varie parti dell’Italia e sono per lo più databili tra il I ed il II sec. d.C.: la dea è rappresentata seduta in trono, con il capo velato, indossa chitone, mantello e un diadema; tiene una cornucopia con la mano sinistra mentre nella destra tiene una patera dalla quale un serpente, avvolto intorno al suo avambraccio, si abbevera.
Come già ricordato il rito era vietato agli uomini, ma ci fu un episodio ritenuto a tal punto scandaloso che finì nelle cronache giornaliere dell’epoca fino ad arrivare ai nostri giorni e che dimostra come il veto di partecipazione per gli uomini venne aggirato.
Nel 62 a.C. Clodio, amante di Pompea, moglie di Cesare, era stato eletto come questore per l’anno successivo (61 a.C.) e nel dicembre del 62 a.C. era in attesa di ottenere ufficialmente l’incarico di amministratore finanziario di una delle province dell’Impero. La notte tra il 4 ed il 5 dicembre si celebravano i Damia, le festività in onore della Bona Dea, che in quell’occasione venivano svolti nella casa di Cesare, che ricopriva la carica di Pontifex Maximus, ed erano ovviamente vietati agli uomini e officiati esclusivamente da donne. Non è ben chiaro per quale motivo lo fece, fatto sta che quella notte Clodio decise di travestirsi da donna per poter entrare in casa mentre si preparava ogni cosa per la cerimonia. Scelse le vesti da flautista per non essere riconosciuto e si presentò ad Abra, una delle ancelle di Pompea che era a conoscenza della loro relazione. La schiava andò ad avvertire la padrona della presenza di Clodio, ma nello stesso momento un’altra ancella lo vide e diede l’allarme. Tutte le donne presenti in casa accorsero, compresa la madre di Cesare, Aurelia Cotta, che cacciò via l’uomo.
E’ Cicerone in una delle sue lettere ad Attico (I, 12, 3) a ricordare l’evento: “Publio Clodio, figlio di Appio, è stato colto in casa di Gaio Cesare mentre si compiva il sacrificio rituale per il popolo, in abito da donna, ed è riuscito a fuggire via solo per l'aiuto di una servetta; grave scandalo; sono sicuro che anche tu ne sarai indignato
Per quanto riguarda le ragioni che lo spinsero a tale gesto alcuni non ritengono sufficiente l’espediente amoroso per stare con l’amante, ma pensano che potesse essere un atto di sfida nei confronti dello stesso Cicerone, console, che l’anno precedente aveva avuto un auspicio favorevole proprio dalla Bona Dea.
In un primo momento la vicenda non ebbe grande risonanza ma il cesariano Quinto Cornificio, il 1 gennaio del 61 a.C. riportò l’accaduto davanti al Senato e fu quindi necessario istituire un processo contro Clodio e sia le Vestali che i Pontefici ordinarono che fossero ripetuti nuovamente i Damia, ritenuti non validi perché profanati.
Il giovane fu accusato di incestus ma si riuscì ad evitare che venisse processato fino alla metà di aprile. Le prove contro di lui erano comunque schiaccianti e a queste si univa la condotta sempre scellerata di Clodio. Egli si vide costretto a mandare via dall’Italia parte dei suoi servi per evitare che potessero essere interrogati, ma questo non bastò in quanto la sua colpevolezza fu confermata dalle testimonianze della madre e della sorella di Cesare, il quale però decise di non testimoniare. Cesare ripudiò Pompea che non venne ritenuta una teste attendibile e quindi non venne neanche chiamata. La difesa di Clodio provò a sostenere che durante le festività in oggetto il giovane fosse altrove, ma lo stesso Cicerone, che pure aveva con Clodio buoni rapporti, testimoniò di averlo incontrato a Roma poco prima che entrasse in casa di Cesare. La sua testimonianza fu inaspettata, ma la spiegazione del suo gesto si trova in un altro passaggio della lettera ad Attico (I, 16, 5): “Constatato quanti pezzenti erano tra i giudici, ammainai le vele e nella mia testimonianza mi limitai a deporre quello che, essendo di dominio pubblico, non si poteva passare sotto silenzio”. Clodio, nonostante la testimonianza di Cicerone potesse farlo condannare a morte, riuscì a essere assolto corrompendo gran parte della giuria e ad ottenere la questura in Sicilia.

 

Manuela Ferrari

 

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Ovidio, Ars Amatoria, III, 65-67