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Venerdì, 19 Aprile 2024

 

A.D. XIII KAL. MAI.
ante diem tertium decimum Kalendas Maias

Ludi Ceriales
Cerialia

 

A.U.C. MMDCCLXXVII
(anno 2777 Ab Urbe Condita)

L’antica corporazione sacerdotale dei Feziali

Tra i numerosi collegi sacerdotali che coesistevano nell'antica Roma, uno dei primi e più importanti fu quello dei Feziali.
Era un collegio composto da venti membri che venivano eletti per cooptazione, dal re in età monarchica e dal Senato dalla Repubblica in poi, e svolgevano un ruolo fondamentale in quello che chiameremmo oggi “diritto internazionale”: avevano cioè il compito di gestire le questioni relative alla dichiarazione di guerra e alla stipula della pace.
Come qualsiasi collegio la cui origine risaliva al periodo arcaico, anche questi sacerdoti seguivano un rituale ben preciso, composto da un formulario e da gesti che si tramandavano di generazione in generazione, rimanendo inalterati per secoli.
Sulla nascita dei Feziali non si hanno notizie certe, ma alcuni autori, tra i quali in particolare Livio (I, 32, 1 – 5), forniscono le maggiori informazioni sull'argomento: l’autore infatti riporta la notizia che fu il re Numa Pompilio a voler introdurre un rituale sacro anche per le dichiarazioni di guerra, prendendo esempio da quello del popolo degli Equicoli, facendo si che qualsiasi azione di Roma, sia in pace che in guerra, fosse soggetta al bene placito degli dei:

Ut tamen, quoniam Numa in pace religiones instituisset, a se bellicae caerimoniae proderentur, nec gererentur solum, sed etiam indicerentur bella aliquo ritu, ius ab antiqua gente Aequicolis, quod nunc fetiales habent, descripsit, quo res repetuntur.

[Tuttavia poiché Numa aveva istituiti i riti religiosi di pace, volendo per parte sua istituire un sacro cerimoniale di guerra, perché non si facessero guerre senza prima averle dichiarate secondo un certo rito, introdusse dall’antica gente degli Equicoli il rituale per chiedere soddisfazione, che ancor oggi i feziali osservano].

Proseguendo con la lettura del passo precedente (I, 32, 6 – 7) Livio fornisce ulteriori importanti notizie: nello specifico riporta che quando Roma riteneva di aver subito un torto si sceglievano due rappresentanti dei feziali che venivano inviati presso il popolo ritenuto manchevole. Si trattava del pater patratus, ossia colui che parlava (patrabat) a nome di Roma e del verbenarius, colui che portava una zolla di verbena presa dall’arce capitolina e che, inizialmente, serviva a garantire la loro incolumità, ma poi passò ad indicare il suolo patrio.

Quando i due legati giungevano presso i confini della città designata, il pater patratus recitava una formula precisa prima di varcarli, presentandosi e chiamando a testimone Giove per confermare la giustizia delle sue intenzioni:

Legatus ubi ad fines eorum venit unde res repetuntur, capite velato filo – lanae velamen est – “Audi Iuppiter”, inquit, “audite fines” – cuiuscumque gentis sunt nominat – “audiat fas: ego sum publicus nuntius populi Romani; iuste pieque legatus venio, verbisque meis fides sit”. Peragit deinde postulata. Inde Iovem testem facit: “Si ego iniuste impieque illos nomine illasque res didier … mihi exposco, tum patriae compotem me numquam siris esse.

[Quando l’ambasciatore giunge al confine di quel popolo a cui si chiede soddisfazione, col capo cinto da una benda di lana dice: “Ascolta Giove, ascoltate confini – e nomina il popolo a cui appartengono – ascolti la volontà divina: io sono il nunzio ufficiale del popolo romano; vengo delegato giustamente e santamente e alle mie parole sia prestata fede”. Dopo aver esposte le richieste, invoca Giove a testimone: “Se ingiustamente ed empiamente chiedo che mi siano consegnati quegli (uomini) e quelle cose … non lasciare che mai più io sia partecipe della patria”.]

Necropoli dell'Esquilino, scena con Feziale

Dal passo liviano si evince quanto fosse importante che i due legati agissero secondo giustizia e la tremenda punizione che Giove avrebbe dovuto far ricadere su di loro, cioè il disconoscimento da parte della patria, se non avessero agito giustamente e piamente. Una volta proferita tale formula i due feziali varcavano i confini della città e ripetevano le medesime parole, con qualche variante, a chiunque incontrassero finché non arrivavano nella piazza, in modo da essere sicuri che tutta la cittadinanza fosse a conoscenza di quanto stava per accadere e della legittimità del loro operato.
Una volta giunti nella piazza principale il pater patratus di Roma si rivolgeva a gran voce al pater patratus della città e illustrava la richiesta della quale era latore, cioè la restituzione del mal tolto, lasciando loro un tempo pari a 30 giorni per decidere cosa fare. Completata tale procedura i due legati tornavano indietro.
Anche Servio (Aen. 9, 52) riporta che il pater patratus, dopo aver recitato delle formule prestabilite, esponeva a gran voce la richiesta di Roma, il che sottolineava la sacralità della richiesta:

pater patratus, hoc est princeps fetialium, profiscebatur ad hostium fines, et praefatus quaedam sollemnia, clara voce dicebat…

[…. Il pater patratus, cioè il capo dei Feziali, si spingeva ai confine dei nemici e, dopo aver detto alcune formule solenni, a chiara voce diceva…]

Trascorso il tempo fissato per la decisione i due feziali tornavano nella città e ascoltavano la risposta: nel caso in cui fosse stato deciso di riparare il danno arrecato, allora i due legati avevano il compito di stipulare un patto (foedus ferire) mediante il sacrificio di un maiale che veniva immolato usando un coltello di pietra che poi veniva scagliato lontano. Tale cerimonia doveva svolgersi di fronte al lapis silex che essi portavano con sé dopo averlo preso dal tempio di Giove Feretrio.
La situazione era invece completamente diversa se la città decideva di non rimediare al torto: in questo caso i due legati, dopo aver chiamato a testimoni tutti gli dei riguardo la scelta della città,  dichiaravano che sarebbero tornati a Roma per riportare la decisione al Senato che poi, in consiglio, avrebbe deciso se muovere guerra. Di nuovo è Livio a narrare il tutto (I, 32, 10):

Audi, Iuppiter, et tu, Iane Quirine, diique omnes caelestes, vosque terrestres, vosque inferni, audite: ego vos testor populum illum” – quicumque est, nominat – “iniustum esse neque ius persolvere. Sed de istis rebus in patria maiores natu consulemus, quo pacto ius nostrum adispicamur”. Tum … nuntius Romam ad consulendum redit.

[“Ascolta o Giove, e tu o Giano Quirino, e voi tutti o dei del cielo, della terra e degli inferi, asoltate: io vi invoco a testimoni che il popolo – e ne fa il nome – è ingiusto e non concede la dovuta riparazione. Ma su queste cose consulteremo gli anziani in patria, sul modo come possiamo far valere il nostro buon diritto”. Poi…..il messaggero ritorna a Roma a riferire.]

Il tempio di Giove Feretrio su una moneta di I secolo a.C.

Una volta giunti a Roma i due legati riferivano al re e al Senato quanto era accaduto nella città nemica e i padri si riunivano quindi per decidere se muovere guerra. Anche in questo caso la procedura era rigorosa: il re chiedeva a ciascuno dei presenti cosa ne pensasse della situazione e se fosse giusto o meno muovere guerra contro quella città.
Il ruolo dei feziali era quindi solo quello di ambasciatori e di giudici relativamente al comportamento della città che si era macchiata del torto nei confronti di Roma, ma non avevano alcuna voce nella decisione da assumere nei confronti di chi non voleva restituire il mal tolto.
Quando i padri avevano deliberato sulla scelta a favore delle ostilità, i due feziali venivano nuovamente inviati nella città portando con sé una lancia appuntita da utilizzare per dichiarare guerra. Anche in questo caso Livio risulta essere fondamentale nella descrizione delle procedure che venivano seguite (I, 32, 12 – 14):

Fieri solitum ut fetialis hastam ferratam aut sanguineam praeustam ad fines eorum ferret et non minus tribus puberibus praesentibus diceret: “Quod populi Priscorum Latinorum homines que Prisci Latini adverus populum Romanum Quiritium fecerunt, deliquerunt, quod populus Romanus Quiritium bellum cum Priscis Latinis iussit esse senatusve populi Romani Quiritium censuit, consensit, conscivit ut bellum cum Priscis Latinis fieret, ob eam rem ego populusque Romanus Quiritium populis Priscorum Latinorum hominibusque Priscis Latinis bellum indico facioque”. Id ubi dixisset, hastam in fines eorum emittebat.

[Era usanza che il feziale portasse al confine nemico un’asta con la punta di ferro, oppure di corniolo rosso aguzzata nel fuoco, e dicesse alla presenza di almeno tre uomini puberi: “Poiché i popoli dei Prischi Latini e gli uomini Prischi Latini agirono ingiustamente contro il popolo romano dei Quiriti, poiché il popolo romano dei Quiriti ha proposto, approvato, deliberato che si facesse la guerra con i Prischi Latini, per questo io a nome del popolo romano dichiaro e muovo guerra ai popoli dei Prischi Latini e agli uomini dei Prischi Latini”. Detto ciò scagliava l’asta nel loro territorio.]

Il lancio dell’asta era quindi considerato il momento culminante della dichiarazione di guerra e segnava l’inizio delle ostilità. Finché Roma si trovò a combattere con nemici “vicini” il rito rimase invariato ma quando iniziò la sua espansione al di fuori dell’Italia non era più possibile svolgerlo in tale modo. Da un passo di Livio (XXX, 43, 9) si evince che in occasione della dichiarazione di guerra a Cartagine i due feziali vennero inviati in loco, ma sembra che fu l’unica eccezione.
Si rese quindi necessaria una variazione al cerimoniale e in particolare sembra che questo avvenisse per la prima volta per la dichiarazione di guerra contro Pirro. Stando ad un passo di Servio (Aen. 9, 52) non potendo inviare i due feziali in Epiro si decise di costringere uno dei prigionieri a comprare un piccolo appezzamento di terra nella zona del Circo Flaminio, davanti al tempio di Bellona, dove venne consacrata una colonna dalla quale si scagliava la lancia: in tal modo quella porzione di città diventava un luogo ostile e, in tale modo, veniva riproposto tutto il rito con il lancio dell’asta all’interno di quella parte di terreno (…ubi hanc solemnitatem per fetiales indicendi belli celebrarent, dederunt operam, ut unus de Pyrrhi militibus caperetur, quem fecerunt in circo Flaminio locum emere, ut quasi in hostili loco ius belli indicendi implerent. Denique in eo loco ante aedem Bellonae consacrata est columna…)

I resti del Tempio di Bellona nell’area del Circo Flaminio.

Tale usanza venne poi continuata per tutte le altre guerre che si svolgevano al di fuori dell’Italia, conservando il rituale nei secoli successivi.
Volendo quindi riassumere il rito nei suoi passi essenziali si desume che era composto da tre momenti principali: la rerum repetitio, durante la quale si chiedeva la restituzione del mal tolto; la testatio deorum, il ritorno dopo 30 giorni per apprendere la scelta e la chiamata a testimoni di tutti gli dei (solo se la richiesta non veniva accolta), ed infine la indictio belli, la dichiarazione di guerra ed il lancio dell’asta.
Livio resta la principale fonte ma anche altri autori ne parlano: tra questi va ricordato Varrone che però ricorda che i feziali che venivano inviati erano quattro e non due (“fetiales legatos res repetitum mittebant quattuor” De Vita Pop. Rom, II, 75).
Il termine dei 30 giorni a disposizione viene invece spiegato in un passo di Dionigi (Dionys. 2, 72, 8): alla richiesta dei Feziali il popolo accusato poteva chiedere un tempo pari a 10 giorni per riflettere e decidere, e questo tempo poteva essere concesso per un massimo di tre volte, arrivando quindi ad un totale di 30.
Il sacerdozio dei Feziali ebbe grande importanza durante la prima parte della Repubblica, cadendo poi in disuso a partire dal IV secolo a.C., quando il loro ruolo venne svolto dai legati senatori. Fu poi Augusto a  voler restaurare, insieme a molte alte tradizioni, il rituale ed il suo arcaico collegio sacerdotale.

Urna marmorea con iscrizione di Furio Camillo Scriboniano, feziale. Roma, Antiquarium del Celio.

 

Manuela Ferrari

 

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Historia vero testis temporum, lux veritatis, vita memoriae, magistra vitae, nuntia vetustatis.
(La storia è vera testimone dei tempi, luce della verità, vita della memoria, maestra di vita, messaggera dell’antichità.)
Cicerone, De Oratore, II, 9, 36