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Lunedì, 7 Ottobre 2024

 

NON. OCT.
Nonis Octobribus

Augustalia
Iovis Fulgor
Iuno Quiris

 

A.U.C. MMDCCLXXVII
(anno 2777 Ab Urbe Condita)

Supsifana e le spese per la sua tomba

 

[Su]PSIFANA T(iti) L(iberta) NICE
[T(itus) S]UPSIFANUS T(iti) L(ibertus) NICEPHOR
[T(itus) S]UPSIFANUS T(iti) et (mulieris) L(ibertus) FRUGI

[Supsifana T(iti)] L(iberta) NICE TESTAMENTO SUO IUSSIT HS

MONU[mentu]M [fieri d]UO [here]D[es]
FACTUM EST HS XXVII (sestertium viginti septem milibus et quigentis)
T(iti) SUPSIFANI T(iti) et (mulieris) L(iberti) NICEPHORI ET M (arcus) S
 (CIL VI, 27023)

Supsifana Nice, liberta di Tito
Tito Supsifano Nicephor, liberto di Tito
Tito Supsifano Frugi, liberto di Tito e di una donna

Supsifana Nice, liberta di Tito, ordinò nel suo testamento (la somma di) sesterzi

E che il monumento fosse fatto dai due eredi [---]
Venne costruito con 27.500 sesterzi
di Tito Supsifano Nicephor, liberto di Tito e di una donna, e di Marco S[---]

I Romani hanno sempre avuto gran rispetto per la morte e per tutti i rituali ad essa legati. Con il passare dei secoli le tipologie funerarie cambiarono, ma un elemento che rimase sempre fisso fu la sepoltura al di fuori della città, tendenzialmente lungo le principali vie extra – urbane. Nella decima delle XII Tavole, entrate in vigore a partire dal 450 a.C., si legge che “Hominem mortuum in Urbe ne sepelito neve urito” (Nessun morto può essere cremato né sepolto in città).

Questo passo è importante perché stabiliva il divieto assoluto di tenere i defunti all’interno della città ma anche perché permette di dedurre che nella Roma arcaica coesistevano sia la tecnica dell’inumazione che quella della cremazione. Questo anche se sia Cicerone (De Legibus, II, 22, 56) sia Plinio (Naturalis Historia, VII, 187) concordavano nel ritenere che nell’Urbe l’inumazione fosse una tecnica più antica dell’incinerazione.
I due riti coesisterono per tutta l’età repubblicana fino al II secolo d.C., con l’affermazione definitiva dell’inumazione a partire da tale data anche grazie all’affermarsi del Cristianesimo, religione secondo la quale bruciare il corpo era un atto sacrilego.
Naturalmente scegliere l’uno o l’altro rito prevedeva una disponibilità di spazio diversa (ed anche un costo differente): per gli inumati ne serviva molto di più, mentre per gli incinerati si potevano sfruttare ambienti piccoli che si sviluppavano in altezza e che potevano ospitare numerose nicchie per urne su ciascuna parete. Si seppelliva, dunque, lungo le strade e una consuetudine molto diffusa tra tutti i ceti della popolazione romana era quella di comprare un terreno cercando di assicurarsi un posto in “prima fila” lungo il ciglio della strada, in modo che la propria tomba potesse essere vista da chiunque passasse. Il posto era alla portata di tutti quelli che potevano comprare quel lotto di terreno e spesso capita di trovare tombe monumentali di ricchi cittadini accanto a sepolture meno ricche di liberti.
Una volta completato il primo filare a bordo strada si passava a costruire in seconda fila, sempre avendo cura di porre la facciata verso la via. I sepolcri più antichi tendono ad essere maggiormente decorati, mentre, a partire dal 18 a.C. grazie all’emanazione della Lex Iulia Sumptuaria, che vietava l’ostentazione della ricchezza, e poi nel corso del I secolo d.C. grazie alla diffusione dell’opera laterizia, le tombe iniziarono ad essere più semplici e, almeno nella parte esterna, tutte più o meno uguali: il lusso, espresso tramite sarcofagi riccamente decorati o stucchi e pitture, restava riservato soltanto al defunto e ai suo cari che venivano sepolti nella stessa camera funeraria.
Quale che fosse comunque la tipologia scelta, vi erano una serie di operazioni che chi voleva farsi costruire una tomba doveva effettuare con largo anticipo prima del suo trapasso. Innanzitutto doveva scegliere dove farsi seppellire, lungo quale strada, in quale fila, a quale distanza dalla città, trattare il prezzo e comprare il terreno; fatto questo poteva dare avvio alla costruzione vera e propria, basandosi su un progetto ben preciso. Il sepolcro poteva avere forme e dimensioni diverse ed ospitare anche più persone o membri della stessa famiglia o facenti parte di una medesima associazione.  
Tra le tipologie di edifici funerarie ve ne erano di estremamente semplici, ma anche altre molto ricche ed elaborate. Un esempio molto diffuso era il sepolcro ad ara, caratterizzato dallo schema usato per gli altari dedicati alle divinità, con l’aggiunta dell’iscrizione funeraria sulla fronte e, talora, i rilievi funerari dei defunti. Altra tipologia semplice era il colombario, la classica tomba collettiva a incinerazione, destinata per lo più ai meno ricchi, che occupava un piccolo lotto di terreno e si sviluppava in parte in forma ipogea e in parte in altezza, riuscendo ad ospitare molte urne cinerarie contemporaneamente; al di sotto del loculo destinato a ciascuna urna veniva graffito o dipinto il nome del defunto, ma a volte si apponeva una targa marmorea.
Molto diffusi erano anche i sepolcri a torre o a edicola, i primi costruiti con una serie di blocchi parallelepipedi sovrapposti di dimensioni decrescenti, mentre i secondi avevano una camera sepolcrale per il sarcofago o le urne sulla quale si impostava un’edicola per la statua del defunto.
Più particolare era invece la tomba a camera, di pianta quadrangolare in laterizio e copertura a volta; lungo le pareti interne erano ricavati degli arcosoli per i sarcofagi o nicchie per le urne. A partire dall’età Antonina si diffonde anche la tipologia a tempietto, caratterizzato da una camera in laterizio, di solito usando mattoni rossi e gialli, a forma di tempio, riservata ai membri di una stessa famiglia; di solito la vera e propria camera sepolcrale si trovava nel piano inferiore, a volte ipogeo, mentre la sala superiore era riservata ai banchetti funerari.
Le tipologie legate invece essenzialmente a personaggi di spicco o particolarmente ricchi sono le tombe a tumulo, che si ispirano alla tradizione etrusco – italica, i mausolei circolari, che si legano alla tipologia tombale di Mausolo re di Alicarnasso, ed infine il mausoleo circolare con pronao. Di questi tre particolari edifici se ne conservano testimonianze lungo la via Appia Antica (ad oggi ancora una valida testimonianza di tale usanza funeraria): si tratta dei tumuli degli Orazi e Curiazi al V miglio, della tomba di Cecilia Metella e del mausoleo di Romolo all’interno del complesso di Massenzio. 
Nonostante le divergenze architettoniche, un elemento che accomunava i sepolcri lungo le vie extra – urbane, era la presenza di iscrizioni che ricordassero a chi passava chi fosse sepolto lì, chi era stato in vita, chi aveva provveduto alla sepoltura e con quanti soldi. A volte si possono trovare epitaffi più lunghi e commoventi, soprattutto quando si tratta di genitori che seppelliscono i propri bambini. In molti casi veniva riportato quanto il defunto avesse vissuto, indicando gli anni i mesi i giorni e alcune volte anche le ore. In alcune iscrizioni il defunto “parlava” direttamente con il passante, come riporta un’iscrizione da Fano (CIL XI, 6243): “Viator, viator / quod tu es ego fui / quod nunc sum tu eris” (Viandante, quel che tu sei, anch'io lo fui, quel che io sono, anche tu lo sarai.).
Come detto in precedenza anche coloro che non appartenevano ai ceti più importanti e ricchi della città potevano aspirare ad una sepoltura decorosa lungo una delle vie che portavano a Roma, l’importante era che avessero la cifra necessaria a coprire tutte le spese. Si possono quindi trovare sepolcri di liberti, spesso legati tra loro in collegi, lungo la via Appia Antica.
È il caso dell’iscrizione sopra riportata, scolpita su due blocchi marmorei parallelepipedi, con andamento curvilineo sulla fronte, che si trovano lungo il lato Ovest di via Appia Antica, all’interno del Parco Archeologico, nel luogo ove probabilmente si trovavano quando vennero scoperti. I due blocchi sono mutili nelle parti laterali, ma nonostante questo è possibile ricomporli: hanno una lunghezza massima di circa m 1,14 ed uno spessore di m 0,28 e probabilmente, dato l’andamento curvilineo, erano apposti su un sepolcro circolare.
Nello specifico si tratta di un’epigrafe funeraria nella quale vengono menzionati tre liberti della stessa persona, un certo Tito Supsifano ed una donna a lui legata, forse la moglie.

I tre sono una donna, Supsifana Nice, e due uomini, Tito Supsifano Nicephor e Tito Supsifano Frugi ed i loro nomi sono riportati nella prima parte dell’iscrizione, che si conclude ricordando che la donna per testamento ha stabilito una quantità di sesterzi o per la costruzione del monumento o per il suo mantenimento ma, essendo il blocco mutilo, non sappiamo quanto la donna avesse disposto per la tomba.
Nella seconda parte dell’epigrafe si deduce che il volere della donna è stato adempiuto dai due personaggi ricordati nell’ultima riga: Tito Supsifano Nicephor e un certo Marco di cui si è perduto il resto del nome. L’iscrizione conserva invece l’enorme somma spesa per la costruzione del sepolcro: si tratta di ben 27.500 sesterzi, somma che, nel I secolo d.C. (periodo al quale può datarsi l’iscrizione), poteva permettere ad una famiglia media di tre persone di mangiare senza preoccupazioni per almeno tredici anni!! Probabilmente la donna, essendo una liberta, non aveva potuto mettere a disposizione tale cifra: si ipotizza quindi che parte del denaro sia stata donata dai due uomini che provvidero a completare l’opera.
Il Tito Supsifano Nicephor ricordato alla fine del testo è con ogni probabilità anche lo stesso che viene menzionato nella seconda riga del primo blocco lapideo. Anche se liberto presenta i tria nomina: il suo gentilizio è abbastanza raro, conosciuto solo da altre tre epigrafi rinvenute sempre a Roma e mai con l’indicazione dello stato sociale; per quanto riguarda invece i cognomina sono molto diffusi tra liberti e schiavi: quello della donna e di questo liberto sono di origine greca mentre l’altro, Frugi, si ricollega all’ambito latino.
Si ritiene che questi due blocchi fossero originariamente disposti l’uno sull’altro e che doveva esservene un terzo, posto alla loro destra, che probabilmente completava le informazioni (ad esempio quale cifra avesse stanziato la donna ed il nome completo del secondo personaggio presente nell’ultima riga). Purtroppo non sappiamo nulla di chi sia stata Supsifana in vita, cosa abbia fatto, se avesse delle mansioni particolari nella casa ove prestava servizio, né per quali meriti e quando sia stata affrancata dal suo padrone. Sappiamo soltanto che era una liberta di origine quasi sicuramente greca, e che gli altri due liberti menzionati erano nella sua stessa casa, ma non è dato sapere se in qualche modo fossero parenti o da quale tipo di legame potessero essere legati. Possiamo immaginare, date le dimensioni dell’epigrafe, che il loro monumento funerario dovesse essere di dimensioni rilevanti e che potesse essere in laterizio, data la cronologia, rivestito da lastre marmoree. Non è dato sapere se nella parte mancante dell’iscrizione vi fossero altre notizie su questi personaggi che comunque, a distanza di secoli, continuano ad attirare la nostra attenzione attraverso la loro iscrizione e se la loro speranza prima di morire fosse stata quella di non essere dimenticati possiamo dire che si è ampiamente avverata. 

 

Manuela Ferrari

 

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Fama, malum qua non aliud velocius ullum. 
(La fama, male di cui nessuno altro è più veloce.)
Virgilio, Eneide IV, 174