I mostri sono sempre esistiti, la mitologia greca ne è piena, basti pensare alle fatiche di Ercole contro l’Idra o al drago Ladone che proteggeva il Giardino delle Esperidi, ai mostri marini come Scilla, alla Chimera o al Minotauro, fino ad arrivare ai grifi e alla Sfinge. Ma a questi mostri per eccellenza, nel mondo greco e romano se ne affiancavano altri, minori da un certo punto di vista, ma che, con il credere nella loro esistenza, riuscivano a terrorizzare le persone nella sfera del quotidiano. Così nelle epigrafi e nei brani degli autori antichi ritroviamo le testimonianze di incontri con streghe, vampiri e lupi mannari, gli “antenati” delle creature che ancora oggi conoscono una fortuna dal punto di vista mediatico, vista la quantità di filmografia o narrativa che viene ad essi dedicata.
Iniziamo con le streghe, che soprattutto a Roma avevano una larga diffusione e possedevano, secondo le credenze, diverse proprietà magiche. In particolare leggendo un’iscrizione, rinvenuta sull’Esquilino nel 1718 presso la chiesa di S. Bibiana e custodita oggi nel Museo Epigrafico Maffeiano di Verona, possiamo renderci conto del tipo di paura e terrore che queste megere dovevano infondere ai cittadini romani:
IUCUNDUS LIVIAE DRUSI CAESARIS, F(ilius) GRIPHY ET VITALIS.
IN QUARTUM ANNUM SURGENS COMPRENSUS DEPRIMOR ANNUM,
CUM POSSEM MATRI DULCIS ET ESSE PATRI,
ERIPUIT ME SAGA MANUS CRUDELIS; UBIQUE
CUM MANET IN TERRIS ET NOCIT ARTE SUA,
VOS, VESTROS NATOS CONCUSTODITE, PARENTES
NI DOLOR IN TOTO PECTORE FINIS EAT.
Iucundus, di Druso Cesare e di Livia, figlio di Gryphi e Vitalis.
Affacciandomi al quarto anno di vita sono stato rapito e ucciso,
quando avrei potuto essere la gioia di mia madre e mio padre.
Mi ha strappato via la mano crudele di una strega;
poiché si trova dappertutto sulla terra e nuoce con la sua arte,
voi, genitori, custodite i vostri bambini
affinché il dolore non invada il vostro cuore e vi rimanga.
(CIL VI, 3, 19747)
Il piccolo Iucundus, di neanche quattro anni, è una delle tante vittime, bambini e infanti soprattutto, che i Romani attribuivano all’arte oscura delle streghe. Il nome per indicare queste donne, solitamente rappresentate come brutte e vecchie, è quello indicato nell’iscrizione dal termine saga. È in particolare un brano di Cicerone (De Divinatione I, 65) che spiega l’ accezione di questo nome derivato dal verbo sagire con il significato di “avere buon fiuto”, e quindi riferisce che le sagae sono così chiamate perché pretendono di sapere molto e in anticipo (da cui il verbo pre-sagire come “anticipare il futuro”). Ma i nomi per indicare le streghe a Roma sono diversi e indicano, ognuno, sia la strega in generale, sia una particolare forma di stregoneria: oltre a saga, che indica la specifica qualità di indovina, troviamo venefica per la particolare arte di avvelenatrice, anus indica la caratteristica comune a tutte le streghe di essere “vecchie”, e infine troviamo il termine striga, da cui deriva il nome moderno di strega, e del cui significato parleremo tra poco.
Per meglio comprendere le caratteristiche di queste streghe della Roma antica un brano di Ovidio (Amores I, 8) è quanto mai illuminante: parla infatti della strega Dipsas (qui indicata come Dipsas anus, cioè la vecchia Dipsas), sempre ubriaca, conoscitrice di innumerevoli incantesimi con i quali riesce a far rifluire i fiumi alla sorgente, esperta di erbe, capace di far annuvolare il cielo e di far colorare di rosso sangue le stelle e la luna. Si trasforma di notte, il suo corpo si ricopre di piume e vola nell’ombra, richiama i morti dalle loro tombe e profana i letti delle famiglie. Qui ci sono alcuni elementi che ricorrono sempre nella descrizione delle streghe nell’antica Roma: innanzitutto sono sempre straniere, come indica il nome, non romane, e agiscono sempre nei cimiteri, al di fuori della città, alla ricerca di erbe per le loro pozioni e di tombe da profanare. Infine per la sua capacità di mutare forma e di trasformarsi in un uccello durante la notte, la nostra Dipsas può essere definita una striga. Questo termine, con cui si designano le streghe che hanno la capacità di trasformarsi in uccelli, deriva forse dal verbo stridere, per il verso che fanno nella notte, e in latino strix è il termine con cui si designano i rapaci notturni (è ancora oggi il termine scientifico usato per classificare i barbagianni). Ma queste strigae non si limitavano soltanto a mutare forma e a volare nell’oscurità della notte, infatti erano a caccia di bambini a cui succhiare il sangue e a cui strappare le interiora con i loro artigli. Il termine strix proprio per questi motivi sui dizionari di latino è spesso tradotto anche con “vampiro”. Siamo quindi di fronte a delle streghe – vampiro che succhiano il sangue dei bambini e per questo erano temute dai genitori e dalle nutrici a cui erano affidati i piccoli. L’iscrizione prima riportata del piccolo Iucundus ne è una prova evidente. Ma per meglio conoscere questi esseri muta forma e succhia sangue che si aggiravano nelle notti dell’antica Roma, è utile leggere ancora un passo di Ovidio (Fasti, VI, 131-168), dove questi rapaci notturni sono descritti dettagliatamente:
Vi sono ingordi uccelli, non quelli che rubavano il cibo dalla bocca di Fineo [le Arpie nda], ma da essi deriva la loro razza: grossa testa, occhi sbarrati, rostri adatti alla rapina, penne grigiastre, unghie munite di uncino; volano di notte e cercano infanti che non hanno accanto la nutrice, li rapiscono dalle loro culle e ne straziano i corpi; si dice che coi rostri strappino le viscere dei lattanti, e bevano il loro sangue sino a riempirsi il gozzo. Hanno il nome di Strigi [est illis strigibus nomem]: origine di questo appellativo è il fatto che di notte sogliono stridere orrendamente. Sia che nascano dunque uccelli, sia che lo diventino per incantesimo, e null’altro siano che vecchie tramutate in volatili da una nenia della Marsica, vennero al letto di Proca…
Proca, nato da appena cinque giorni, è quello che sarà il futuro re di Alba. Le Strigi gli hanno succhiato il sangue dal petto e hanno fatto scolorire il suo piccolo volto, ma non è ancora in fin di vita e viene salvato da Crane (o Carna), una ninfa che viveva nel lucus Helerius, un bosco sacro sulle rive del Tevere probabilmente nella zona poi occupata dal Foro Boario, a cui il dio Giano aveva dato il potere di proteggere le porte delle case. Così interviene chiamata dalla nutrice di Proca spaventata, e, attraverso un rituale, ci illustra il modo per scacciare questi esseri mostruosi:
Venne alla culla; la madre e il padre piangevano: “Trattenete le vostre lacrime”, disse, “lo curerò io stessa”. Subito con una fronda di corbezzolo tocca tre volte – una dopo l’altra - la porta, e tre volte con la fronda di corbezzolo fa segni sulla soglia, cosparge di acqua l’ingresso – e l’acqua conteneva un filtro magico – e prende viscere crude d’una porcella di due mesi, dicendo: “Uccelli notturni, risparmiate le viscere infantili: in cambio di un piccolo fanciullo cade una piccola vittima. Cuore per cuore, vi prego, e fibre per fibre prendete: codesta vita vi offriamo in cambio di una vita migliore”. Compiuto il sacrificio, dispose le viscere tagliate all’aria aperta, e proibì di guardarle a coloro che assistevano al rito: e dove una piccola finestra illuminava la camera, dispose il ramo di Giano, che era di biancospino. È fama che dopo quel momento gli uccelli non violarono più la culla, e sulle gote del bambino tornò il colore di prima.
Abbiamo così la descrizione di questi esseri mostruosi e il rituale che doveva essere messo in atto per scongiurare la loro minaccia. Queste strigae possono essere considerate le antenate dei vampiri: è vero che non sono cadaveri immortali, ma hanno trasmesso ai vampiri “moderni” la ferocia con cui succhiano il sangue e la capacità di tramutarsi in animali notturni volanti, i pipistrelli. Così come i vampiri “moderni” temono l’aglio e i paletti di legno conficcati nel cuore, le strigae possono essere tenute a bada con corbezzolo e biancospino usati sulle porte e sulle finestre delle case. Ovviamente questi esseri mostruosi sono stati creati dagli antichi per spiegare le morti dei bambini e dei neonati che nel mondo antico avvenivano assai frequentemente, e il dolore e la superstizione dei romani ha fatto si che siano rimaste radicate nella tradizione. Lo stesso avveniva in Grecia dove figure analoghe erano state create e credute vere per spaventare i bambini stessi: è il caso di Mormò,donna di Corinto trasformata in mostro dopo che aveva divorato i propri figli e che deriva il proprio nome da mòrmoros, paura, e che terrorizzava i piccoli “mormorando” come un gorgoglio il proprio nome.
Un’altra testimonianza relative alle streghe di Roma la troviamo in un passo di Plinio (Naturalis Historia, XI, 232) dove ad essere identificate con le streghe sono a volte anche le nutrici stesse che con il latte del loro seno avvelenano i bambini appena nati.
Petronio (Satyricon, 63) riporta invece un altro episodio relativo alle strigae: durante il banchetto di Trimalcione si raccontano delle storie di terrore, narrate come vere dai commensali, e una di queste storie riguarda proprio un assalto delle streghe – vampiro al corpo di un bambino morto. Conosciamo così altre caratteristiche terribili di questi mostri, narrate dallo stesso Trimalcione:
Quando avevo ancora i capelli lunghi […] morì il ragazzino del nostro padrone […]. La sua infelice madre lo piangeva vicino a me e ad altri […]. Di colpo cominciarono a stridere le streghe che sembrava di sentire un cane quando insegue una lepre. Avevamo con noi […] un uomo della Cappadocia, alto, audacissimo e pieno di forza: uno che avrebbe potuto sollevare un bue infuriato. Costui, sguainata la spada con gran coraggio, si lanciò fuori dalla porta con la mano sinistra ben avvolta e trafisse una donna a metà corpo […]. Si udì un gemito, vi assicuro che non mento, ma di streghe non se ne videro. Il nostro gigante intanto rientrò e si gettò sul letto. Aveva il corpo coperto di lividi come se lo avessero frustato, perché certo lo aveva colpito la mano maledetta. Noi, chiusa la porta, riprendemmo la veglia; ma la madre, che abbracciava il corpo del figlio suo, si trovò tra le braccia un manichino di paglia. Non aveva più il cuore né l’intestino né altro. Le streghe avevano rapito già il fanciullo, lasciando al suo posto un bamboccio impagliato.
Qui si arricchisce la conoscenza dei poteri malefici delle streghe romane, perché si evidenzia la loro capacità di infliggere danni a chi le avesse toccate, come nel caso dello schiavo della Cappadocia (che sappiamo dal seguito della storia che pochi giorni dopo morì reso pazzo dal dolore) e che riuscivano a rubare, non viste, tutti gli organi dei bambini lasciando addirittura al suo posto un fantoccio. Tutti questi esempi riportati rendono evidente il tipo di timore che queste creature provocavano e, a chi volesse ribattere che in fondo si trattava solo di leggende, l’epigrafe del piccolo Iucundus testimonia in maniera concreta la concezione che i romani avevano del pericolo, considerato reale, creato dalle strigae.
Ma nel mondo antico altri esseri mostruosi, che hanno avuto e hanno ancora fortuna nelle storie moderne, trovato la propria genesi. Si tratta dei lupi mannari. Già nella mitologia greca si conoscono storie di uomini trasformati in lupi, ma per la maggior parte si tratta di punizioni divine permanenti, come nel caso di Licaone, re dell’Arcadia, trasformato in lupo da Zeus per aver offerto come dono al dio un bambino (Pausania VIII, 2, 3-6 e Ovidio Metamorfosi, I, 209-243). Anche qui il mito è facilmente spiegabile con il nome stesso del sovrano punito, che deriva dal greco lycos, cioè lupo.
Licaone trasformato in lupo da Zeus
A Roma i lupi mannari sono conosciuti con il nome di versipelles, ovvero muta forma o muta pelle (versipelles in questo senso erano quindi anche le strigae). Ma nei casi riportati dalla letteratura vediamo come la trasformazione sia reversibile, si può cioè passare da uomo a lupo e poi da lupo a uomo. Un caso è narrato da Plinio (Naturalis Historia, VIII, 81) che riporta una storia ambientata sempre in Arcadia:
Evanthes, inter auctores Graeciae non spretus, scribit Arcadas tradere ex gente Anthi cuiusdam sorte familiae lectum ad stagnum quoddam regionis eius duci vestituque in quercu suspenso tranare atque abire in deserta transfigurarique in lupum et cum ceteris eiusdem generis congregari per annos VIIII. Quo in tempore si homine se abstinuerit, reverti ad idem stagnum et, cum tranaverit, effigiem recipere, ad pristinum habitum addito novem annorum senio. Id quoque adicit, eandem recipere vestem.
[secondo il greco Evante un membro della famiglia di un tale Anto in Arcadia, dopo essere stato estratto a sorte, veniva condotto presso uno stagno, qui appendeva i propri abiti ad una quercia, traversava a nuoto lo stagno, raggiungeva luoghi inabitati e si trasformava in lupo. Egli restava tra gli altri lupi per nove anni, trascorsi i quali, nel caso in cui non avesse toccato carne umana, faceva ritorno allo stagno e alla sua vita.]
Altra fonte sui lupi mannari è, strano a dirsi, Virgilio, che descrive un caso di licantropia nelle Bucoliche (VIII, 95-99):
Has herbas atque haec Ponto mihi lecta venena
ipse dedit Moeris (nascuntur pluruma Ponto);
his ego saepe lupum fieri et se condere silvis
Moerim, saepe animas imis excire sepulcris,
atque satas alio vidi traducere messis.
[Queste erbe e questi veleni raccolti nel Ponto Meri in persona mi ha dato: nel Ponto ne nascono molti. Vidi Meri grazie ad essi trasformarsi spesso in lupo e nascondersi nelle selve, spesso lo vidi evocare le anime dai profondi sepolcri e trasportare le messi da un campo all'altro.]
Ancora una testimonianza sui lupi mannari viene da Petronio (Satyricon, 62), in un passo subito precedente quello già citato per le streghe. Siamo sempre al banchetto di Trimalcione e si raccontano storie spaventose, a parlare è Nicerote:
Persuasi un soldato nostro ospite, forte come un orco ad accompagnarmi […]. Capitati in mezzo a un cimitero, il mio compagno si mise a farla tra i cippi, mentre io canticchiavo per farmi coraggio e andavo contando le tombe. Dopo un po’, voltandomi, vidi che il soldato si era spogliato e aveva lasciato gli abiti presso il margine della strada. Con l’animo in gola stetti a guardarlo: pisciando tracciava un cerchio intorno ai suoi vestiti e subito si trasformava in lupo […]. Incominciò ad ululare e prese la fuga verso i boschi. Non capivo più dove fossi, e tanto per fare qualcosa mi avvicinai ai suoi vestiti: erano diventati di pietra! Chi non sarebbe morto di paura? Impugnai la spada e menando fendenti, tra uno scongiuro e l’altro, arrivai a casa della mia amica. Entrai che parevo un cadavere […]. Quando a fatica mi ripresi, la mia Melissa cominciò a stupirsi per il fatto che andassi in giro a quelle ore. “Se tu fossi arrivato prima”, disse, “almeno ci avresti aiutato: poco fa è entrato nel podere un lupo e come un macellaio ha cavato sangue a tutte le nostre bestie. Ma non l’ha fatta franca, anche se è fuggito, perché un nostro schiavo gli ha trafitto il collo con una lancia” […]. Non appena venne chiaro, fuggii a casa […] passando da quel punto dove le vesti del soldato erano diventate di pietra, non trovai altro che sangue. Giunto a casa vidi che il mio soldato giaceva stravaccato nel letto come un bue, e che il medico gli stava curando una ferita al collo. Capii che si trattava di un lupo mannaro [intellexi illum versipellem esse]; e ti assicuro che non sarei più riuscito a mangiar pane con lui, neppure se tu mi avessi ucciso.
Dai passi citati possiamo vedere le caratteristiche principali dei lupi mannari antichi e notare le differenze con i licantropi moderni. Innanzitutto la trasformazione non viene scatenata dalle notti di luna piena come saremmo soliti aspettarci, ma, secondo le varie versioni, o da pozioni di erbe particolari, come tramanda Virgilio, oppure dal contatto con le tombe o dal trovarsi in un cimitero, come nel caso del racconto di Petronio. Ogni volta che avviene la mutazione in lupo, comunque è presente un ambiente extra urbano, come cimiteri appunto, o luoghi deserti e boschi. Altri elementi comuni nei racconti riportati sono quelli dell’abbandono delle vesti di uomo, e quindi degli abiti consoni a delle persone civilizzate, e il requisito essenziale della nudità per scatenare la trasformazione in lupo. Infine in Petronio troviamo il nome con cui questi esseri venivano chiamati: versipelles, cioè muta pelle, cambia pelle o muta forma. Traspare inoltre il fatto che i personaggi capaci di mutare in lupo siano una sorta di stregoni o maghi, come ricorda appunto Virgilio nel caso di Meri, quest’ultimo capace di creare pozioni con erbe particolari per la trasfigurazione, oppure capace, nello stesso tempo, di evocare le anime dei morti e infondersi una forza tale da spostare da solo i raccolti dei campi agricoli. L’elemento magico si intravede anche nel soldato di Petronio che si trasforma nel cimitero, ma solo dopo aver compiuto una specie di rito con l’uso della propria urina attorno ai suoi vestiti che diventano di pietra. Quindi questi lupi mannari possono essere paragonati per i loro poteri alle strigae (versipelles anch’esse) e alle sagae per la loro capacità di preparare pozioni ed evocare i morti. L’unica differenza evidente è che i lupi mannari, almeno per le fonti che ci sono rimaste, sono tutti uomini.
Possiamo trovare a Roma una festività che si concentra intorno alla figura dell’uomo – lupo. Si tratta dei Lupercalia, festeggiata ogni 15 di febbraio presso il Lupercale, la mitica grotta dove la lupa allattò i gemelli fondatori di Roma, Romolo e Remo. Questo santuario era dedicato a Fauno Luperco, cioè Fauno – Lupo, una divinità da placare e onorare attraverso un rituale che comprendeva l’uso di sangue e latte e il sacrificio di un cane, e che consentiva di proteggere dai lupi la prima città sorta sul Palatino. I sacerdoti che svolgevano il rituale, i Luperci, erano infatti considerati una specie di uomini – lupo e, dopo aver svolto il sacrificio nella grotta, dovevano correre, nudi, intorno al Palatino, come a creare con la loro corsa una barriera di protezione magica che segnasse il confine tra la civiltà urbana e la natura selvaggia esterna, incarnata dalla figura feroce del lupo, o in questo caso, dell’uomo – lupo. Anche qui compaiono le stesse caratteristiche trovate nei racconti dei lupi mannari, nudità (cioè l’abbandono delle vesti che definiscono un uomo civile), la corsa sfrenata nei luoghi selvaggi (originariamente il Lupercale si trovava ai piedi del Palatino presso una zona paludosa e ricoperta di boschi), e, la trasformazione, in questo caso solamente rituale, dei Luperci in lupi.
Gabriele Romano