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Lunedì, 7 Ottobre 2024

 

NON. OCT.
Nonis Octobribus

Augustalia
Iovis Fulgor
Iuno Quiris

 

A.U.C. MMDCCLXXVII
(anno 2777 Ab Urbe Condita)

L'arte di acconciarsi i capelli nell'antica roma

 

L’acconciatura maschile a Roma

 

Hoc iacet in tumulo raptus puerilibus annis
Pantagathus, domini cura dolorque sui,
vix tangente vagos ferro resecare capillos
doctus et irsuta ex coluisse genas.
Sic licet, ut debes, tellus, placata levisque,
artificis levior non potes esse manu.

(Marziale, VI, 52)

 

[In questo tumulo giace rapito negli anni puerili
Pantagathus, dolore e lutto per il suo signore,
ineguagliato nel tagliare arruffati capelli
senza quasi toccarli con il ferro
e nel ripulire le ispide gote.
Così è lecito, come devi, Terra, che tu possa essere più leggera e placata
Di quanto non lo fosse la mano d’artista]

 

Nel mondo romano sia gli uomini che le donne erano molto attenti alla loro immagine, soprattutto se appartenevano a ceti benestanti o alla famiglia imperiale.
I rituali legati alla toelette erano diversi per gli uomini e le donne, ma né gli uni né le altre tralasciavano la cura della loro capigliatura e del loro viso.
Per l’uomo romano la sistemazione dei capelli era una delle prime azioni fondamentali che svolgeva all'inizio della giornata. Se aveva sufficiente disponibilità economica, poteva permettersi di annoverare tra i suoi servi un barbiere personale, il tonsor. Costui aveva il compito di curare i capelli del padrone tagliandoli, se erano cresciuti molto dall’ultima volta, o acconciandoli, se non era necessario il taglio.
Chi non poteva avere un tonsor personale doveva andare in una delle varie botteghe (tonstrinae) presenti in quasi tutta la città e a prezzi non sempre economici. Le botteghe erano molto semplici, composte da panche lignee, sulle quali si accomodavano i clienti ed erano sparsi gli attrezzi del mestiere, e da qualche specchio appeso ai muri; al centro della stanza vi era il cliente, seduto su una sedia con una salvietta a coprire gli abiti. Il tonsor si dedicava al suo lavoro spesso aiutato dai circitores: tagliava o sistemava i capelli in base alla “moda” lanciata dagli imperatori e anche se si trattava di tagli abbastanza semplici (il modello ideale per molto tempo rimase Augusto) spesso però il risultato non era quello sperato. Il tonsor infatti utilizzava delle forbici (forfex) in ferro (caratterizzate da due anelli alla base come impugnatura e da un perno centrale che teneva unite le due lame), un arnese non troppo perfetto che portava spesso alla creazione di tagli disuguali ai lati del viso.
Per ovviare a tale inconveniente con il tempo, e in particolare a partire dal II secolo d.C., gli uomini iniziarono ad imitare la capigliatura, arricciata ad arte, di Adriano e dei suoi successori.  Il lavoro per ottenere i ricci era abbastanza lungo: era necessario scaldare sotto la cenere ben calda, all’interno di una sorta di guaina metallica, uno stiletto in ferro che, una volta arroventato, permetteva di crearli. Una volta completata la capigliatura il tonsor usava oli, profumi e creme varie per dare ai suoi clienti l’idea di una perenne o ritrovata giovinezza. Ma il suo compito non finiva qui: doveva occuparsi anche della barba.
Nel periodo regio e repubblicano si soleva occuparsi più che altro dei capelli mentre questa era spesso lasciata lunga, a volte incolta. Fu Giulio Cesare il fautore di una cura quasi maniacale del viso perfettamente rasato in qualsiasi tipo di occasione e, da lui in poi, la rasatura venne vista come un segno distintivo dell’uomo romano. Ma il taglio della barba segnava anche un passaggio importante nella vita di un giovane: la prima depositio barbae veniva compiuta con un rituale quasi sacro e per alcuni personaggi importanti (come ad esempio Marcello) ne abbiamo notizia dagli autori antichi. La barba veniva conservata in pissidi d’oro, nel caso di famiglie ricche, o in semplici pissidi in vetro, per chi non se le poteva permettere; completato il taglio si festeggiava, ognuno con i propri mezzi, questo importante rito di passaggio all’età adulta e la prima barba veniva offerta alla divinità.
Dopo la prima rasatura nessun uomo poteva più esimersi dal radersi (tranne i soldati o i filosofi) e spesso tale pratica era tutt’altro che sicura! Non esistevano creme o lozioni preparatorie alla rasatura e sembra che l’unica cosa che venisse preventivamente passata sul viso fosse della semplice acqua. I rasoi utilizzati erano quasi sempre in ferro (materiale facilmente deperibile a causa della ruggine e per questo poco ritrovato negli scavi) e venivano affilati su una pietra apposita, la laminitana (che si faceva venire dalla Spagna), inumidita dalla saliva. Questo implicava che il tonsor  sapesse maneggiare bene le novaculae e avesse molta esperienza, dovuta ad un lungo tirocinio presso un padrone, e fosse dotato di abilità. Erano questi due i requisiti necessari per poter avere una propria bottega: alcuni avevano la fortuna di riuscire nell’impresa e di diventare famosi a tal punto da essere ricordati anche dai poeti. 
È il caso del giovane Pantagathus, un abile e virtuoso barbiere morto in giovane età, al quale Marziale (uno dei più famosi epigrammisti del mondo romano vissuto tra il 40 ed il 102 d.C.) dedica un epigramma funerario nel quale ricorda la leggerezza della sua mano e la grande pena del suo padrone che non lo avrà più a sua disposizione. 
Non tutti i tonsores erano però bravi come Pantagathus: spesso i clienti riportavano tagli più o meno profondi e i barbieri non sempre utilizzavano le cure necessarie per evitarli. Questo portò, nel corso del II secolo, a seguire un’altra moda dell’imperatore Adriano, oltre a quella dei capelli ricci. Secondo una delle tesi più accreditate Adriano decise di lasciarsi crescere la barba per coprire una brutta cicatrice e gli uomini furono ben lieti di adeguarsi a tale novità e di sottrarsi al supplizio della rasatura. 

 

 

 

 

L’acconciatura femminile a Roma

 

Unus de toto peccaverat orbe comarum
Anulus, incerta non bene fixus acu.
Hoc facinus Lalage speculo, quo viderat, ulta est,
et cecidit saevis icta Plecusa comis.
Desine iam, Lalage, tristes ornare capillos,
Tangat et insanum nulla puella caput.
Hoc salamandra notet vel saeva novacula nudet,
ut digna speculo fiat imago tua.

(Marziale, II, 66)

 

[Un solo ricciolo era fuori posto in tutta la massa delle chiome
Non ben fissato dall’ago.
Questo delitto è stato vendicato attraverso lo specchio con il quale è stato visto, oh Lalage,
e Plecusa è morta colpita dalla stessa chioma.
Dunque Lalage finisci di ornare i tristi capelli
E nessuna fanciulla tocchi la testa insana.
Questa venga segnata da una salamandra o venga rasata da un rasoio crudele,
affinché la tua immagine allo specchio sia degna (di te)]

 

L’acconciatura femminile era, allora come oggi, più lunga e complessa di quella maschile, ma ugualmente variava secondo la moda del momento. In epoca repubblicana i capelli erano portati in maniera molto semplice: si creava una riga al centro della testa per dividere la chioma a metà e poi la si raccoglieva in uno chignon. In epoca augustea si imitavano le due donne più importanti di Roma, Livia e Ottavia, usando portare delle trecce raccolte poi in cercine sulla fronte. Si passò in età flavia ai riccioli, molto complicati da realizzare, per poi arrivare nelle epoche successive a delle acconciature che tendevano a svilupparsi in altezza e che furono spesso oggetto di attacchi satirici. 
Ma le vere artefici di tanto lavoro erano le ornatrices, il corrispettivo femminile del tonsor, delle quali sono rimasti numerosi epitaffi che permettono di conoscere in quale casa e per quanto tempo prestarono servizio.
Ogni matrona ne aveva più di una al suo servizio, tutte pronte a soddisfare ogni capriccio.
Come per l’uomo, anche per la donna la cura dei capelli e del viso rientrava tra le prime azioni quotidiane appena sveglia. Una volta alzata e dopo aver fatto una sommaria cura del corpo (il bagno era riservato ad un altro momento della giornata), prendeva dal suo armadio nella camera da letto la capsa, una sorta di beauty-case dell’antichità, dove custodiva gelosamente, disposti in vari cassettini, i trucchi e le creme che le sarebbero serviti per creare o esaltare la sua bellezza, nonché gli aghi crinali, retine e pettini di varia misura che sarebbero serviti per i capelli. Ogni mattina li disponeva con cura sulla tavola per poterli scegliere e dedicarsi poi alla pettinatura.
Le sedute erano estremamente lunghe e noiose e le pettinatrici dovevano essere bravissime e molto attente nel loro lavoro per evitare che la matrona, dopo ore di attesa, alla fine del lavoro si accorgesse che qualcosa non andava e se la prendesse con loro: infatti per nessun motivo al mondo permettevano che qualcosa andasse male e le punizioni per la povera ornatrix di turno potevano essere davvero terribili. Le malcapitate venivano spesso prese a male parole, graffiate o anche frustate. Uno dei casi più tristi che si può citare è quello raccontato da Marziale nell’epigramma sopra riportato, nel quale l’autore illustra come la giovane acconciatrice Plecusa sia stata uccisa (cecidit) dalla sua matrona per non aver ben fissato uno degli aghi crinali e quindi colpevole di aver permesso che un solo ricciolo fosse fuori posto.
Erano senza dubbio più fortunate le ornatrices che dovevano acconciare matrone con pochi capelli: in quei casi il lavoro era notevolmente facilitato non solo perché la quantità di capelli e il rischio di sbagliare erano inferiori, ma soprattutto perché spesso si usavano delle trecce posticce o parrucche che potevano essere preparate con più tranquillità. La necessità di ricorrere a parrucche, la cui diffusione si ebbe soprattutto a partire dall’epoca augustea, era spesso dovuta anche ad un fattore diverso dall’età. Infatti le donne amavano molto, come anche oggi, cambiare colore di capelli e le tinture che avevano a loro disposizione non sempre erano sicure, così come l’uso frequente del calamistrum arroventato per ottenere i ricci portava come conseguenza alla perdita dei capelli (lo sappiamo soprattutto grazie ad Ovidio).
Il compito di queste acconciatrici però non si limitava soltanto alla cura dei capelli. Come per il tonsor anche loro si occupavano della depilazione della padrona e del trucco, che doveva esaltare la bellezza ma, molto spesso, cercare di ringiovanire e migliorare il volto. Completato il trucco e scelti i gioielli, la matrona finalmente sceglieva la veste più adatta e poteva cominciare la sua giornata pubblica.

 

Manuela Ferrari

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Fama, malum qua non aliud velocius ullum. 
(La fama, male di cui nessuno altro è più veloce.)
Virgilio, Eneide IV, 174