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Venerdì, 19 Aprile 2024

 

A.D. XIII KAL. MAI.
ante diem tertium decimum Kalendas Maias

Ludi Ceriales
Cerialia

 

A.U.C. MMDCCLXXVII
(anno 2777 Ab Urbe Condita)

Fuscus, un auriga dell'Antica Roma

 

FVSCUS CVRSOR
PRASINI VIX(it) ANN(os) XXIV
VICIT ROM(ae) LIII AD DEAM DIAM II
BOVILLIS I VNA PALMA REV(ocatus) BIS
EANDEM VICIT HIC OMNIVM CVRSOR(orum)
PRIMVS QVA DIE MISSVS EST VICIT STAT(im)
C(aio) CESTIO        M(arco) SERVILIO CO(n)S(ulibus)
MACHAO CONSER(vus) MEMORIAE CAVSA

(CIL VI 33950) 

Fuscus auriga
della fazione verde visse 24 anni
vinse a Roma 53 volte, 2 volte per la dea Dia
1 volta a Bovillae. Richiamato due volte per una palma
vinse la stessa. Primo tra tutti gli aurighi
vinse immediatamente nel giorno in cui era stato inviato.
Durante il consolato di Gaio Cestio e Marco Servilio
Il suo compagno di servitù Machao per la sua memoria

 

Tra i vari tipi di giochi che i Romani organizzavano nell’Urbe e nelle varie zone del territorio romano, quelli sicuramente più amati erano i Ludi Circenses, le corse di carri che si svolgevano nei circhi e che vennero importate dal mondo etrusco e da quello greco. Questi si svolgevano nel Circo Massimo ed erano considerati i più antichi tra tutti i ludi romani (secondo la tradizione vennero istituiti da Romolo in occasione della festività dei Consualia, e per questo detti ludi Consuales o Magni). Il popolo tutto amava le corse nel circo ed andava letteralmente in visibilio quando i cavalli partivano, facendo un vero e proprio tifo da stadio. Naturalmente le corse erano occasioni per le scommesse, ma anche momenti in cui si potevano svolgere incontri clandestini di altro genere (in particolare amorosi) sfruttando il fragore del pubblico. Le corse dei carri si svolgevano di norma in relazione a particolari festività religiose, ad esempo a Bovillae erano legate alla celebrazione dei Ludi Augustali che si svolgevano nel circo nel mese di ottobre ed erano curati dai Sodales Augustales, mentre quelli per la dea Dia avevano luogo il 17 maggio presso il santuario della dea al quinto miglio della Via Campana ed erano organizzati dagli Arvales.
Vi potevano essere corse di bighe, trighe, quadrighe o anche a più cavalli e il cerimoniale era sempre lo stesso. Per prima cosa si svolgeva una solenne processione (pompa) che faceva il giro del circo attorno alla spina, seguita poi da sacrifici in onore delle divinità. L’inizio della competizione vera e propria era annunciato da chi presiedeva i giochi (console, pretore o edile a seconda dei casi) che aveva il compito, allo squillare della tromba, di dare il segnale di partenza facendo cadere un drappo bianco dall’alto della tribuna dentro l’arena.La disposizione delle singole factiones (o squadre) veniva decisa a sorte; erano quattro, ciascuna contraddistinta da un colore: il bianco (factio albata), il rosso (factio russata), il verde (factio prasina) e il blu (factio veneta). Ciascuna fazione non era composta soltanto dall’auriga e dai suoi cavalli, ma anche da tutti coloro che facevano parte della squadra (allenatori, veterinari, sarti, sellai, palafrenieri….).

 

 

Per quanto riguarda il vestiario, l’auriga romano, a differenza di quello ellenico, correva indossando un elmetto e soleva tenere le redini intorno alla vita al contrario dei greci che le tenevano in mano. Questa caratteristica era spesso però motivo di grande pericolo per l’auriga stesso in quanto, se perdeva il controllo della biga, restava comunque legato ad essa e se non riusciva a liberarsi rischiava di essere travolto dal suo stesso carro. Per questo motivo vennero poi dotati di un piccolo coltello, da usare in caso di pericolo per tagliare le redini e liberarsi. L’abbigliamento dell’auriga romano è ben noto grazie alle numerose rappresentazioni rimaste (mosaici, affreschi, statue): indossava una tunica corta con maniche lunghe e del colore della fazione di appartenenza. Aveva poi una fasciatura legata in modo complesso per proteggere le costole mentre le ginocchia e gli stinchi erano coperti da corregge di cuoio.
Anche il cavallo veniva “vestito” per l’occasione: gli veniva posto un ramo sulla testa; la coda veniva stretta in un nodo; la criniera veniva adornata di perle mentre sul pettorale portava borchie e amuleti; sul collo un collare flessibile ed una reticella del medesimo colore della fazione per la quale correva.
L’auriga aveva l’arduo compito non solo di restare vivo, ma anche di saper ben gestire i suoi cavalli, sporgendosi in avanti per guidarli ed eccitarli e poi tirandosi indietro per evitare di scontrarsi con gli altri carri che tentava di superare.
Dalle iscrizioni rimaste non emerge la fatica da lui fatta o il modo in cui ha conquistato la vittoria: spesso si tratta, come nel nostro caso, di un elenco dettagliato delle vittorie ottenute. 
Nonostante fossero degli schiavi la vittoria era riconosciuta a loro stessi e il premio solitamente consisteva in una corona di alloro e del denaro. Come accadeva per i gladiatori anche gli aurighi se vincevano molte gare potevano poi comprarsi la propria libertà, sempre se riuscivano a restare vivi. Il tasso di mortalità tra di loro era molto alto e la maggior parte moriva giovanissima, come nel caso di Fuscus che aveva appena 24 anni o di Scorpus, forse il più famoso auriga di Roma, morto a soli 27 anni durante una corsa. Per i fortunati che riuscivano a vincere le ricchezze erano davvero enormi e dovute non solo al premio per le gare, che in poco tempo permetteva loro di affrancarsi, ma anche ai lauti compensi che esigevano per non abbandonare la propria fazione e passare ad un’altra. 
Ma la fama non era conquistata soltanto dall’auriga: lo stesso cavallo poteva avere sostenitori accaniti ed un esempio ci viene fornito da un’iscrizione su mosaico pavimentale rinvenuta nelle Terme di Numidia, oggi però andata distrutta, dove Pompeiano, proprietario dell’impianto, fece scrivere il suo amore per un destriero: “Vincas, non vincas, te amamus, Polydoxe!” (Che tu vinca, che tu non vinca, noi ti amiamo, Polidosso!).
L’iscrizione marmorea riportata invece all’inizio dell’articolo, rinvenuta sulla via Salaria ed attualmente conservata al Museo Nazionale Romano alle Terme di Diocleziano, è l’epigrafe funeraria di un famoso auriga della Roma Imperiale, il giovane Fuscus

Egli apparteneva alla fazione verde (prasina) che con la blu, la rossa e la bianca costituivano le quattro squadre che si sfidavano durante le corse dei cavalli nei circhi. 
Era un idolo ai suoi tempi, vinse ben 53 gare nei circhi di Roma ed altre anche al di fuori dell’Urbe, come ricordato nell’iscrizione. Non si tratta però di un semplice elenco di vittorie e luoghi in cui furono ottenute. L’autore dell’epitaffio vuole ricordare anche un episodio particolare: durante una delle gare Fuscus fu richiamato per due volte probabilmente per falsa partenza ma riuscì egualmente a vincere e fu il primo auriga a riuscire a conquistare la vittoria al primo giorno. Egli morì a soli 24 anni durante una delle numerose gare alle quali partecipava. Il funesto evento avvenne sotto il consolato di Caio Cestio Gallo e Marco Servilio Noniano, quindi nel 35 d.C., il che ci fa dedurre che la carriera di Fusco si svolse durante l’impero di Tiberio. Colui che fece porre l’iscrizione è un certo Machao definito conservus, cioè compagno di servitù: da  questo si evince che lo stesso Fuscus, così come la maggior parte degli aurighi a Roma, non era un uomo libero e, in base all’ipotesi che il suo nome derivi dall’aggettivo fuscus cioè scuro in riferimento alla pelle, si può dedurre che il giovane provenisse dal Nord Africa, da dove venivano portati anche numerosi cavalli che correvano nelle gare, oppure dalla Spagna (sulla base di un’iscrizione su ara a lui dedicata e rinvenuta a Tarragona). 
Un’altra iscrizione a lui dedicata è stata trovata anche nel circo dell’antica Bovillae, città nella quale vinse durante i Ludi Augustali (creati da Tiberio per celebrare Augusto e la Gens Iulia e che vi si svolgevano in esclusiva), come ricordato anche nell’epigrafe sopra riportata.

 

Manuela Ferrari

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Historia vero testis temporum, lux veritatis, vita memoriae, magistra vitae, nuntia vetustatis.
(La storia è vera testimone dei tempi, luce della verità, vita della memoria, maestra di vita, messaggera dell’antichità.)
Cicerone, De Oratore, II, 9, 36