Unde ego mira descripsi docilis praecepta haec, tempore quo me,
solatus iussit sapientem pascere barbam
atque a Fabricio non tristem ponte reverti.
Nam male re gesta cum vellem mittere operto
me capite in flumen, dexter stetit et “cave faxis
te quicquam indignum; pudor” inquit “te malus angit,
insanos qui inter vereare insanus haberi.”
(Orazio, Satire, II, 3, 35-40)
[Ho trascritto di lui [del filosofo Stertinio] questi precetti mirabili,
dal giorno in cui mi diede conforto e mi ordinò
di farmi crescere la barba da filosofo e tornarmene via dal ponte Fabricio meno triste:
andato ogni mio affare alla malora, mentre, coperto il capo,
stavo lì per buttarmi nel fiume, egli comparve alla mia destra e disse:
“Non farai cosa indegna di te. Falso pudore ti angustia:
ti vergogni, temi d’essere considerato un pazzo in mezzo ai pazzi.”]
La nostra visione del suicidio nell’antica Roma deriva soprattutto dagli esempi illustri dei personaggi che misero fine volontariamente alla propria vita, solitamente per evitare una vita vergognosa o l’onta di una sconfitta militare o, ancora, per sfuggire ad una condanna a morte indegna. Inoltre il suicidio romano è continuamente permeato dalla filosofia stoica, seguita da molti personaggi importanti della vita sociale romana e che consigliava il ricorso al suicidio, purché giustificato razionalmente, laddove non rimaneva nessuna altra possibilità di vivere una vita decorosa. Solitamente si usava un pugnale o una spada, quest’ultima in molti casi retta da uno schiavo per aiutare il proprio padrone a gettarvisi sopra, oppure, in maniera meno cruenta, si preferiva aprire le vene con una lama e lasciare scorrere via il sangue. Ricordiamo così Lucrezia, moglie di Lucio Tarquinio Collatino, suicida per vendicare la propria virtù violata con la forza (si pugnalò a morte dopo essere stata violentata da Sesto Tarquinio, figlio del re Tarquinio il Superbo, episodio che secondo la leggenda diede inizio alla cacciata del re e alla nascita della repubblica); Catone l’Uticense, suicida contro la tirannia di Cesare, stoico ed esempio della libertà repubblicana per i secoli a venire tanto da essere inserito da Dante come guardiano del Purgatorio (Purg. I, 70-75): “Or ti piaccia gradir la sua venuta: / libertà va cercando ch'è sì cara, / come sa chi per lei vita rifiuta. / Tu 'l sai, che non ti fu per lei amara / in Utica la morte, ove lasciasti / la vesta ch'al gran dì sarà sì chiara.”; Bruto e Cassio, i cesaricidi, si diedero la morte, aiutati dai propri schiavi, dopo essere stati sconfitti nella battaglia di Filippi del 42 a.C. da Augusto e Marco Antonio; lo stesso Marco Antonio si tolse la vita nel 30 a.C., seguito poi dalla sua sposa Cleopatra, dopo essere stato sconfitto da Augusto nella battaglia di Azio del 31 a.C.; ricordiamo poi Seneca, maggiore esponente dello stoicismo romano e maestro di Nerone: costretto dallo stesso imperatore al suicidio nel 65 d.C. decise di tagliarsi le vene dei polsi, delle gambe e delle ginocchia e per aiutare il deflusso del sangue fece anche un bagno caldo; infine, ma potremmo andare ancora avanti, lo stesso Nerone fu costretto al suicidio nel 68 d.C.: dopo essere stato dichiarato nemico di Roma dal Senato fuggì dalla città e si rifugiò nella villa di Faonte sulla via Nomentana, dove fu aiutato a tagliarsi la gola dal suo schiavo Epafrodito, pronunciando la celebre frase "Qualis artifex pereo!" (Quale artista muore con me!).
Il suicidio di Seneca - Manuel Domínguez Sánchez (1871)
Ma oltre a questi esempi più famosi c’erano anche suicidi delle persone comuni, dei poveri, degli schiavi, che avvenivano per i motivi più diversi come per la rovina finanziaria, un lutto o un dolore insopportabile, la vergogna o la stanchezza di vivere in situazioni disperate, per evitare una condanna o per paura di conseguenze politiche o militari. Nelle fonti letterarie però questo suicidio che potremmo definire dei poveri o “quotidiano” è ricordato raramente, uno dei pochi passi è quello sopra riportato che vide Orazio spingersi fino al Ponte Fabricio all’Isola Tiberina per suicidarsi dopo aver fallito finanziariamente, ma che non si gettò nel Tevere per l’intervento del filosofo Stertinio, che lo dissuase dal suo intento iniziando a parlare dei suoi precetti morali. In questo passo troviamo almeno notizia di un luogo che probabilmente era frequentato dai suicidi “comuni” e cioè il Ponte Fabricio, e almeno una caratteristica tipica di chi si suicidava, e cioè il coprirsi la testa. Ogni qual volta ci si votava alla morte ci si velava il capo, come emerge anche da un passo di Livio (IV, 12): capitibus obvolutis se in Tiberim praecipitaverunt (si gettarono nel Tevere dopo essersi velati il capo) relativo a suicidi multipli di plebei avvenuti durante l’azione politica di Lucio Minucio alla fine del V secolo a.C.. Comunque questo tipo di suicidio, insieme allo gettarsi dall’alto di una rupe e all’impiccarsi, era considerato come non degno dai ceti aristocratici per via delle sofferenze fisiche che procurava prima della morte. Come visto negli esempi sopra riportati, i senatori e le loro famiglie preferivano uccidersi con la spada o tagliarsi le vene. Tra il popolo e gli schiavi comunque la forma di suicidio più usata era l’impiccagione, molto più facile da effettuare anche in solitudine, ed è un suicidio testimoniato in molti passi delle commedie di Plauto.
Un’atipica forma di suicidio che veniva eseguita a Roma era la devotio, nella quale il generale romano nel corso della battaglia si votava agli dei offrendo la sua vita per propiziare la vittoria militare di Roma. Più che un suicidio vero e proprio si trattava di un sacrificio volontario che di solito veniva effettuato dal comandante dell’esercito, anche se sappiamo che poteva farlo qualsiasi cittadino romano. Gli esempi di questa pratica di valore e virtù romana sono tutti membri della stessa famiglia, i Decii. Il primo fu Publio Decio Mure, console, che nel 340 a.C. si votò agli dei Mani per far vincere i Romani alla battaglia del Vesuvio contro i Latini. Sappiamo da Livio (VIII, 9) il rituale di questo suicidio/sacrificio: dopo aver indossato la toga praetexta ed essersi velato il capo chiese agli dei la sconfitta dei nemici in cambio della propria vita: “Iane, Iuppiter, Mars pater, Quirine, Bellona, Lares, Divi Novensiles, Di Indigetes, Divi, quorum est potestas nostrorum hostiumque, Dique Manes, vos precor veneror, veniam peto feroque, uti populo Romano Quiritium vim victoriam prosperetis hostesque populi Romani Quiritium terrore formidine morteque adficiatis. Sicut verbis nuncupaui, ita pro re publica [populi Romani] Quiritium, exercitu, legionibus, auxiliis populi Romani Quiritium, legiones auxiliaque hostium mecum Deis Manibus Tellurique devoveo.” (Oh Giano, Giove, Marte padre, Quirino, Bellona, Lari, Divi Novensili, Dèi Indigeti, dèi che avete potestà su noi e i nemici, Dèi Mani, vi prego, vi supplico, vi chiedo e mi riprometto la grazia che voi accordiate propizi al popolo romano dei Quiriti potenza e vittoria, e rechiate terrore, spavento e morte ai nemici del popolo romano dei Quiriti. Così come ho espressamente dichiarato, io immolo insieme con me agli dèi Mani e alla Terra, per la Repubblica del popolo romano dei Quiriti, per l'esercito per le legioni, per le milizie ausiliarie del popolo romano dei Quiriti, le legioni e le milizie ausiliarie dei nemici.) Stessa sorte decisero per sé i due figli di Publio Decio Mure: uno nella battaglia di Sentino nel 295 a.C., durante la terza guerra sannitica, seguendo il rituale già provato dal padre (Livio X, 28); l’altro nella battaglia di Ascoli Satriano del 279 a.C. contro Pirro.
La morte di Publio Decio Mure. Peter Paul Rubens, 1617-1618.
Gabriele Romano